L'importanza dell'allenatore in seconda (estratto).
Premessa.
Credo che l’importanza del vice allenatore sia spesso trattata con superficialità. Per molti esiste solo la figura anonima del collaboratore tecnico o dell’aiutante di campo, mentre invece l’allenatore in seconda ha compiti specifici, preparazione culturale e didattica, oltre a un’influenza determinante nella gestione dello spogliatoio e della metodologia d’allenamento. In altre parole, è un allenatore a tutti gli effetti.
Soprattutto nel calcio di oggi, in cui il risultato è l’unica cosa che conta veramente e che forma i giudizi sul lavoro svolto dallo staff tecnico, l’allenatore in prima ha la necessità di non ritrovarsi da solo nei rapporti con la squadra, con la società, con i media, con i tifosi. Ha bisogno di una sorta di corazza, rappresentata dai suoi collaboratori, vice allenatore in primis, in grado di proteggerlo e schermarlo dall’esterno. Una corazza solida, efficiente e resistente è una condizione indispensabile per raccogliere i risultati e salvaguardare la propria attività, oltre che la propria carriera. Anche il rapporto che si instaura tra tutte le componenti di una squadra di calcio, dallo staff tecnico fino al magazziniere, è fonte di molte riflessioni utili a spiegare il conseguimento o meno degli obiettivi prefissati. E dobbiamo ammettere che le sinergie di lavoro influiscono moltissimo sull’andamento della stagione.
Il concetto di team è valido anche per l’allenatore e i suoi collaboratori, che devono essere i primi a valorizzare e a puntare su questa concezione della loro attività. L’ottenimento dei risultati in uno sport di squadra, infatti, non può prescindere dall’ottimizzazione delle dinamiche di gruppo. In base a questa premessa e alla mia esperienza personale, ho elaborato una tesi che mi auguro possa servire come spunto di riflessione per chi lavora dentro o a contatto con il mondo del calcio.
Conoscenza tra l'allenatore in prima e l'allenatore in seconda.
Per conoscere a fondo una persona bisogna avere l’opportunità di frequentarla in maniera assidua per un periodo di tempo piuttosto lungo. Meglio ancora se la frequentazione è obbligata, forzata, perché in tale contesto viene fuori l’identità vera e si possono esplorare le inclinazioni del suo carattere, analizzarne pregi e difetti, modi di pensare, di rapportarsi con gli altri, di approcciare la vita e l’attitudine a socializzare.
Serse Cosmi l’ho conosciuto al corso per allenatori professionisti di seconda categoria, a Coverciano, nel 1997. Abbiamo trascorso sei settimane gomito a gomito, dal lunedì al venerdì, di giorno e di notte, visto che dormivamo nella stessa camera. A pelle, la sensazione è stata che ci conoscessimo da sempre, per una simpatia che è scattata subito da entrambe le parti. Credo che a renderci complici fin dal primo momento siano state delle analogie che riguardano la mia e la sua vita: una visione delle cose piuttosto simile, per esempio, e anche certe esperienze parallele relative all’adolescenza. Entrambi siamo cresciuti in paesi di provincia, entrambi abbiamo dedicato al pallone gran parte della nostra vita, tutti e due abbiamo valori semplici ma genuini che conserviamo gelosamente. Inoltre, dato importante, siamo pressoché coetanei. Fatto sta che mi è apparso da subito come una persona, un collega, un amico col quale poter condividere un percorso comune, sportivo e non.
Per quanto mi riguarda si è creato un rapporto di amicizia sincera, consolidatosi negli anni, e una collaborazione professionale molto stimolante, affinata partita dopo partita, allenamento dopo allenamento. E’ anche vero, e io non faccio eccezione, che ognuno di noi coltiva l’ambizione di misurarsi personalmente con il lavoro che fa, di essere in qualche modo il protagonista principale della sua vita e della sua carriera. Però, proprio per il legame affettivo instauratosi tra di noi, ho vissuto con appagamento e soddisfazione il mio ruolo di tecnico in seconda, senza rimpianti. Mai dire mai nella vita, anche se è evidente che la condivisione di certe esperienze, di certe amicizie, di certi principi, ti spinge in una direzione piuttosto che in un’altra.
Determinante, in questo senso, è stato ed è quel senso di arricchimento che si prova nel lavorare in staff con persone con le quali c’è feeling e con professionisti di valore. In una situazione del genere c’è l’opportunità di un dialogo chiaro con l’allenatore, la tranquillità di esporre le proprie idee senza il rischio di non essere ascoltato, la possibilità di creare un pensiero comune da rivolgere allo spogliatoio. Tutto ciò è ancora più importante nel calcio di oggi, dove l’allenatore è sempre più solo e dove la figura della guida tecnica ha perso molto del suo potere. Ormai il confronto schietto, aperto con le dirigenze e i calciatori è una rarità, perché ciò che conta è il risultato immediato. E se il risultato non arriva, l’esonero è automatico.
Spesso succede che un allenatore sia costretto a scegliersi un vice indicato dalla società o "sponsorizzato" da tutor esterni, scoprendone caratteristiche positive e negative soltanto sul campo, durante il lavoro quotidiano. Questo, proprio in riferimento alla ristrettezza del tempo a disposizione per impostare un certo tipo di programma, è penalizzante e per nulla produttivo. Sotto tale profilo , voltandomi indietro e ripensando alle dodici stagioni con Cosmi, mi considero uno fortunato.
Filosofia calcistica.
Un proficuo rapporto professionale con l’allenatore in prima presuppone, oltre alla condivisione di certi stili di vita, anche la filosofia di fondo con cui viene interpretato, gestito e proposto il calcio. Schemi di gioco, moduli tattici e metodologia d’allenamento devono essere frutto del lavoro di ricerca e di studio dello staff tecnico, perché una divergenza più o meno marcata sul tipo di programma da proporre alla squadra, potrebbe ingenerare equivoci profondi nei rapporti con i calciatori.
E’ anche vero che spesso mi sono posto il problema se sia più proficuo, nel rapporto con l’allenatore in prima, trovarsi sempre sulla stessa lunghezza d’onda oppure confrontare idee diverse, partire da presupposti differenti e poi mediare una sintesi efficace. In entrambi i casi, secondo la mia esperienza, ci sono risvolti positivi e negativi.
Nell’eventualità di un pensiero comune, c’è di buono che il programma settimanale viene elaborato uniformemente, con il rischio però di essere monotematici e di trascurare alcuni dettagli che poi potrebbero inficiare l’approccio alla partita e la prestazione sul campo. Viceversa, se si crea una divergenza tra tecnico in prima e tecnico in seconda, diventa fondamentale il confronto e la necessità di buonsenso da ambo le parti per raggiungere un punto d’incontro e attutire i contrasti. In questo caso l’aspetto positivo è rappresentato dal fatto che dubbi e diversità d’opinione stimolano la concentrazione e la messa a fuoco di tanti particolari, come ad esempio le contromisure tattiche per neutralizzare l’avversario.
La verità, a mio parere, sta nel mezzo. E l’allenatore in seconda ha il compito delicatissimo di saper leggere i vari contesti specifici. Occorrono serenità e sensibilità per capire quando è il caso di non sollevare troppi dubbi con l’allenatore in prima e quando invece si rende necessario porre in tavola osservazioni e perplessità, stimolando una lettura diversa della gestione tecnica e tattica contingente.
E’ chiaro che una filosofia di base condivisa, in riferimento alla visione generale del calcio, costituisce un naturale punto di partenza, perché facilita l’interazione con la squadra e riduce il rischio di alimentare contraddizioni. A Cosmi, per esempio, mi accomuna l’elasticità tattica che ci consente di variare la disposizione dei giocatori sul terreno di gioco. Non abbiamo un modulo "preferito", nonostante l’utilizzo frequente del 3-5-2, ma cerchiamo di adattare lo schema alle caratteristiche degli interpreti. Più in generale, abbiamo sempre suggerito un approccio propositivo alla prestazione, incoraggiando i calciatori a fare la partita e non a subirla passivamente. La valorizzazione dei giovani, anche sconosciuti e provenienti dalle categorie inferiori, è stato ed è un altro dato che caratterizza il nostro lavoro, visto che a tutti e due piace impostare un progetto a medio termine su elementi da scoprire tecnicamente e caratterialmente.
E’ molto più frequente, per tornare al tema di fondo, trovarsi in disaccordo sulla gestione psicologica del gruppo o di un calciatore, piuttosto che su quello tecnico e tattico. Questo avviene perché le sfumature nei rapporti personali sono infinite, così come le difficoltà che insorgono durante una stagione. Individuare la parola giusta da pronunciare in un colloquio individuale, oppure il provvedimento disciplinare da prendere in seguito a un comportamento sbagliato, oppure ancora l’atteggiamento da tenere nei confronti di un giocatore alle prese con difficoltà relative alla sfera privata, richiede una conoscenza approfondita della vita di spogliatoio e una comunanza di idee con l’allenatore in prima. Soltanto così lo staff trasmetterà un messaggio di solidità rassicurante.
Poi è anche vero che in giro ci sono allenatori che trascurano completamente il parere dei collaboratori, e collaboratori che preferiscono declinare le responsabilità, restando nel limbo di un atteggiamento per nulla partecipe. Entrambi i comportamenti sono sbagliati. Il primo perché nega quell’interazione tra membri dello staff che è fondamentale per una corretta gestione della squadra, il secondo perché riduce la figura del vice allenatore a un mero aiutante di campo, senza potere decisionale e senza la facoltà di rendersi utile nella risoluzione dei problemi tecnici, tattici e psicologici che si creano lungo l’arco di un campionato.
In generale sarebbe proficuo, a mio giudizio, confrontare le esperienze degli allenatori in seconda che stanno lavorando nel calcio italiano e all’estero. Noto però che permane un certo ostracismo in questo senso e gli addetti ai lavori lasciano filtrare poco o nulla, pregiudicando una conoscenza più vasta delle caratteristiche del nostro lavoro.
Conoscenza dei compiti specifici.
Molto spesso, in tutte le categorie e in tutte le società, assistiamo a cambiamenti improvvisi nella composizione dello staff tecnico. Questo accade sia per scelta dell’allenatore in prima che per decisione delle dirigenze. Alla base, quasi sempre, c’è il venir meno di quei sottili equilibri che sono indispensabili per dare produttività al lavoro. Il mestiere dell’allenatore in seconda, sotto questo aspetto, è delicato e difficile da interpretare nel modo giusto. I superficiali sostengono che abbia pochi lati negativi e tanti vantaggi, su tutti quello di osservare le cose dal di dentro, dall’interno dello spogliatoio, che resta il cuore pulsante della squadra. Pochi riescono a focalizzare, però, che per gestire una responsabilità del genere occorre una dote particolare: la diplomazia. Senza la capacità di dire o non dire la cosa giusta al momento giusto, e anche all’interlocutore giusto, si rischia di mandare all’aria il lavoro di mesi e mettere a repentaglio la propria credibilità, oltre a quella dell’allenatore in prima. E considerando quanto oggi sia difficile guadagnarsi l’autorevolezza necessaria per guidare una squadra di calcio, è facilmente intuibile l’importanza di avere sempre sotto controllo le cose da fare e le parole da spendere. E’ questo il concetto principale che caratterizza il compito dell’allenatore in seconda, anche più della conoscenza tecnica e tattica. L’effetto prodotto dalle proprie azioni e dai propri comportamenti va tenuto costantemente sotto controllo. Basta un piccolo gesto fuori posto per creare reazioni negative nel gruppo e quindi l’arrivo con l’auto nel parcheggio, il modo di interloquire con gli altri membri dello staff, il caffè preso al bar in compagnia della squadra, durante il ritiro, rappresentano soltanto in apparenza dei momenti in cui si possono abbattere certe barriere comunicative. Soprattutto con i giocatori, va salvaguardata la stabilità del rapporto tra loro e l’allenatore in seconda e tra quest’ultimo e l’allenatore in prima.
Mi è capitato diverse volte, per esempio, di trovarmi ad affrontare richieste di colloquio individuale da parte di un calciatore scontento per alcune decisioni tecniche o alle prese con qualche problema personale. In queste circostanze è assolutamente necessario dimostrare coerenza e preservare la solidità con gli altri componenti dello staff. I giocatori, in alcuni casi involontariamente e in altri consapevolmente, mettono alla prova le competenze e la "fedeltà" dell’allenatore in seconda. Chi cade nel tranello psicologico, magari perché inconsciamente ritiene di essere più bravo del tecnico in prima, e si lascia andare a considerazioni in libertà, tradisce il suo compito specifico e rende vulnerabile tutto lo staff, innescando un meccanismo perverso molto difficile da bloccare. D’altra parte, un buon allenatore in seconda deve affinare la capacità di calarsi nei panni del calciatore che ha di fronte e comprenderne le ragioni. Accade di frequente che i giocatori tendano a scrollarsi di dosso le responsabilità per scaricarle su qualcun altro e allora sarà necessario persuaderli su una lettura diversa della situazione e stimolarli a migliorare l’applicazione negli allenamenti e nelle partite.
E’ poi vero, come abbiamo appreso durante le lezioni del corso, che congruenza, accettazione attenta e incondizionata, comprensione empatica (Rogers, 1983) contribuiscono a creare quel clima di atteggiamenti facilitanti che genera crescita e risultati. Genuinità e trasparenza di comportamenti sono fondamentali, sia nelle scelte tecniche che nella gestione umana. Altrettanto importante è la considerazione positiva del calciatore, a prescindere dalla sua nazione di provenienze o dalle sua abitudini religiose e culturali. In questo devo dire che mi sono costruito in carriera una grandissima esperienza. Poi c’è la sensibilità verso la sfera interiore dei calciatori, la capacità di mettersi nei panni dei ragazzi, un obiettivo da conquistarsi giorno dopo giorno senza oltrepassare il limite della confidenzialità e conservando l’autorità che impone il ruolo dell’allenatore. Un vice deve dosare nel modo giusto rimproveri e gratificazioni, tenendo presente che l’obiettivo da preservare sempre, in ogni circostanza, è la credibilità del tecnico in prima.
Linguaggio usato tra i tecnici.
Il linguaggio ci consente di capire molte cose riguardo le relazioni interpersonali che ci sono dentro uno spogliatoio. Mi riferisco al linguaggio verbale, ovviamente, ma anche a quello corporeo.
La prima considerazione, banale soltanto in apparenza, è che il linguaggio utilizzato dall’allenatore in prima nei confronti del suo vice, offre a chi osserva una descrizione importante del rapporto esistente. Un atteggiamento brusco e troppo diretto dell’allenatore, delegittima il suo secondo. Al contrario, un vice allenatore esuberante all’eccesso può ingenerare nella squadra il dubbio che l’allenatore in prima non abbia la personalità e le conoscenze per gestire al meglio la situazione o che soffra la vivacità del collaboratore. Come al solito, la qualità che occorre è l’equilibrio, anche perché nel calcio moderno si fa presto a vedersi appiccicare un’etichetta, mentre ci vuole molto tempo per levarsela di dosso. Essere bollato come un allenatore dispotico che non dà spazio al suo staff, oppure come un allenatore troppo morbido, che al suo staff delega troppe funzioni, rappresenta un danno non da poco in termini di immagine. Messa così, la nostra potrebbe sembrare una professione difficile e insidiosa, cosa che in parte è vera. Ma alla base c’è una passione immensa per il lavoro sul campo e dentro lo spogliatoio, al punto che le difficoltà sono compensate dai momenti di gioia, pochi o tanti che siano. L’esperienza, come in molti altri settori, è di grande aiuto. Se un allenatore in prima ha svolto anche le mansioni di vice allenatore, il suo linguaggio con i collaboratori, con i giocatori e con la dirigenza sarà tale da facilitare il lavoro dello staff. Dirò di più: all’estero si sta consolidando la tendenza di allenatori in seconda che, introdotti a certi livelli dai loro maestri, si ritagliano una carriera di prestigio, prendendosi sulle spalle la responsabilità della guida di una squadra dopo qualche anno di apprendistato. Villas Boas del Porto, ex vice di Josè Mourinho, ne è un esempio lampante, mentre in Italia casi del genere sono molto più sporadici. Anche dalla televisione traspare nitidamente questo legame sempre più stretto che c’è tra tecnici. Capita di frequente, durante le partite internazionali e non, di vedere gli allenatori parlottare e scambiarsi opinioni con i membri del loro team seduti in panchina. Quella è una forma di comunicazione rassicurante anche nei confronti della squadra che sta giocando la partita.
Tornando al linguaggio usato dai tecnici, trovo assolutamente necessario utilizzare il noi al posto dell’io. Se l’allenatore in prima si rivolge al gruppo facendo capire che il suo è un lavoro di staff, tutti ne traggono beneficio. Altrimenti, inconsciamente, i calciatori potrebbero essere indotti a trascurare le indicazioni del vice, del preparatore, del tattico, perché tanto pensa a tutto l’allenatore in prima, mentre il lavoro di quest’ultimo si va sempre più a delineare come il vertice di una piramide operativa. L’allenatore ideale, a mio avviso, è di sicuro quello che potuto ricoprire anche il ruolo di vice, maturando esperienze preziose che gli hanno poi consentito di fare il salto di qualità. In questi anni di lavoro a fianco di Cosmi, ho imparato a capire anche l’incidenza del linguaggio corporeo, visto che lui è un allenatore che affida alla gestualità molta della sua forza comunicativa. L’agitarsi davanti alla panchina, il richiamare a voce alta i calciatori, il gesticolare in maniera appariscente sono input che vengono inviati alla squadra. Quando si siede in panchina, quello è il sintomo che la prestazione non è soddisfacente. E’ superfluo poi mettere in evidenza quanto conti il tono della voce utilizzato per incitare, elogiare, pungolare la squadra. Nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per esempio, un allenatore che utilizza un linguaggio efficace ha la possibilità di cambiare l’andamento della gara. In questi casi è preziosissimo anche il contributo del vice. In certi momenti basta un’espressione della faccia, una smorfia, un’occhiata per mettere in crisi lo sforzo dell’allenatore in prima. Ecco perché anche il linguaggio corporeo, tramite piccoli e grandi segnali, è uno strumento imprescindibile nella gestione di una squadra di calcio.
Complicità psicologica nella gestione del gruppo.
Ho già messo in evidenza come il calcio sia molto cambiato rispetto a una volta, anche sotto l’aspetto dei rapporti e della comunicazione interna. La figura dell’allenatore ha subito un’involuzione, almeno per quello che riguarda la sua esposizione ai problemi e alle difficoltà. Chi guida una squadra, infatti, non ha più la protezione che aveva un tempo, quella autorità che gli derivava semplicemente dal ruolo che ricopriva. Oggi l’allenatore, sempre più spesso, sembra un fantoccio nelle mani del presidente di turno. E allora diventa imprescindibile la complicità umana, professionale e psicologica con il suo staff al completo. Proporsi al gruppo con le spalle coperte è uno dei fattori più importanti per sviluppare un lavoro proficuo, anche in considerazione del fatto che i giocatori sono portati a giudicare sommariamente tutto ciò che propone un team di allenatori e preparatori.
In base alla mia esperienza, non posso dire che i calciatori non siano uniti o non collaborino con i tecnici. Ma questo riguarda per lo più la coesione sociale che quella del compito: i calciatori sono più attenti al risultato individuale, alla propria crescita, al proprio successo, più che all’instaurare un vero spirito di gruppo. Per come si è evoluto il calcio moderno, l’allenatore si trova davanti venti aziende individuali, i calciatori per l’appunto, riunite in una sorta di consorzio che si chiama squadra di calcio. Non è affatto semplice indirizzare ognuna di queste aziende lungo una linea comune e quando la situazione tocca livelli da allarme rosso, lo si capisce da certe frasi, da certi luoghi comuni, buttati in pasto ai media da giocatori, allenatori e presidenti. Quando si comincia a dire che "bisogna restare uniti, remare dalla stessa parte" eccetera eccetera, quello è il segnale che la situazione sta peggiorando e che per l’allenatore cominciano tempi grami. Prima di arrivare a certi punti critici, i tecnici devono lavorare insieme dal punto di vista psicologico e nella gestione delle dinamiche interne. L’aiuto del vice allenatore libera energie mentali che l’allenatore in prima può dedicare ad altri aspetti della preparazione della partita. Un approccio sbagliato alla gara è quasi sempre il sintomo di una gestione settimanale imperfetta, in cui il tecnico e i suoi collaboratori hanno dovuto occuparsi di problemi particolari e contingenti piuttosto che del programma classico di lavoro.
Trovo necessario ribadire che i rinforzi psicologici passano soprattutto dall’allenatore in seconda. Se un giocatore chiede spiegazioni sul motivo per il quale non viene considerato alla stregua degli altri compagni, sul perché gioca poco, sulle cause di un suo scarso utilizzo, un buon vice non può mostrarsi titubante e incerto. La figura dell’allenatore in prima e le sue decisioni vanno rinforzate, facendo leva sulla capacità di leggere le situazioni. E’ un gioco delle parti che si autoalimenta e che va gestito con intelligenza: anche quando non si è d’accordo al cento per cento con una scelta tecnica, il vice deve recitare uno spartito e dimostrarsi credibile, altrimenti si verrebbe a creare una spaccatura dagli esiti imprevedibili. L’allenatore in seconda, per l’esperienza che ho maturato io, deve essere un istrione e interpretare il suo ruolo in mille modi, mantenendo un pensiero coerente con l’allenatore in prima, con se stesso e con il gruppo, anche quando, in realtà, ha qualche dubbio sulla bontà delle scelte effettuate.
Il concetto di complicità è proprio questo e soprattutto la complicità esiste soltanto se gli altri la avvertono e la riconoscono. A volte, non sempre, si rende necessario anche un confronto a tre o di gruppo, per dimostrare pure di fronte ad altri che non si cambia versione e che esiste veramente una linea da seguire per lo staff. Tale interazione, dunque, il calciatore può toccarla con mano e questo consente di risolvere un problema, perché il giocatore tende a crearsi degli alibi e ha costantemente bisogno di essere rassicurato.
Ovviamente, gli stessi concetti si applicano anche nei confronti dei dirigenti, con i quali è fondamentale mostrare complicità e condivisione degli obiettivi. Il contatto giornaliero con il direttore sportivo, il direttore generale e anche il presidente, presuppone che lo staff si mostri monolitico e solido, in modo da rinforzare la figura dell’allenatore in prima e di conseguenza di facilitare il lavoro di tutti i suoi collaboratori.
Rapporti con la squadra.
Non è facile instaurare un rapporto positivo con professionisti di alto livello, bombardati da mille messaggi e mille stimoli, quali sono i calciatori di oggi. Buona comunicazione e risultati sportivi sono strettamente connessi tra di loro e chiedersi cosa sia più importante porta a una sola risposta: sono importanti entrambi. Senza risultati sul campo, la comunicazione è destinata a complicarsi se non addirittura a fallire. Senza una buona comunicazione, d’altronde, alzare il livello delle prestazioni e migliorare le performances diventa quasi impossibile.
Va detto che mentre un allenatore deve obbligatoriamente tenere sotto controllo gli interessi globali della squadra, i calciatori sono concentrati su quelli individuali. Di qui la necessità di incanalare la comunicazione su binari precisi, in modo da non perdere di vista l’obiettivo finale. Per instaurare un rapporto corretto con il gruppo, un allenatore deve avere la collaborazione totale del suo staff. I dettagli e le sfumature che si presentano durante una stagione sono infinite e una sola persona non può gestirle tutte. L’individuazione stessa di un problema richiede tempo e attenzione, così come la sua soluzione dopo averlo affrontato con la giusta strategia comunicativa e con tempi piuttosto celeri. E’ chiaro, comunque, che le possibilità di una giusta correlazione con la squadra dipendono anche dalla sensibilità culturale dei giocatori.
Negli anni mi sono trovato ad affrontare più di una situazione critica e devo ammettere che nella maggior parte dei casi siamo riusciti a ottenere riscontri apprezzabili. Questo è dipeso in gran parte dall’ottimo rapporto e dalla complicità che si era instaurata dentro il nostro staff e che non smetterò mai di sottolineare.
Le ultime esperienze professionali con Brescia, Livorno e Palermo mi hanno anche fatto comprendere quanto sia delicata la fase del subentro a stagione in corso. Ci sono dei casi, come quello di Palermo, in cui non si crea il feedback con il gruppo e i messaggi dell’allenatore, del vice, del preparatore, non giungono a destinazione. Quando uno staff non riesce a penetrare nel tessuto emotivo dello spogliatoio, è praticamente impossibile ottenere risultati. Molto influisce il contesto: a Palermo, per esempio, la squadra era molto legata all’allenatore precedente e da parte della società non c’è stata la giusta legittimazione del nuovo team di lavoro. Diversi sono invece i casi di Brescia e di Livorno, dove siamo arrivati a lavorare in profondità anche sotto l’aspetto della comunicazione, oltre che tecnico e tattico.
In generale, mi sento di affermare che rispetto ai primi anni in cui sono arrivato alla serie A, i calciatori sono cambiati molto, anche perché è mutato il contorno. Oggi il mister non è più l’unica fonte di conoscenza calcistica alla quale fanno riferimento e addirittura si è verificato un rovesciamento completo di certe dinamiche: se prima era l’allenatore, in base al suo modo di intendere il calcio, che confermava o meno i giocatori, adesso accade l’esatto contrario. Non so se si giungerà al punto di rendere l’allenatore una figura da comprimario, ma sarebbe sicuramente sbagliato perché di cose da fare, per un rapporto positivo con il gruppo, ce ne sono tante: determinare i comportamenti da tenere con i singoli e con la squadra; studiare analiticamente le varie personalità; individuare il leader o i leader; leggere i rapporti tra i calciatori e la dirigenza; conoscere le famiglie dei calciatori.
Con Cosmi, per mia fortuna, abbiamo sempre suddiviso serenamente certe sfere di competenza e mi sono ritagliato un ruolo che ritengo importante dal punto di vista psicologico, proprio per il dialogo e la partecipazione che ho cercato di mettere in piedi e di mantenere con i calciatori. La cosa si è rivelata più semplice quando abbiamo avuto l’opportunità di cominciare la stagione dall’inizio, cioè dal ritiro estivo, mentre è stata più complicata nei casi di subentro citati prima. A tal proposito, abbiamo riflettuto più volte sulla necessità di modificare il nostro approccio classico alla comunicazione: cercare un’interazione con i giocatori e un rapporto più confidenziale di quello standard, come è naturale per noi, pagava nei primi anni ma adesso non paga più. I giocatori hanno bisogno di una guida e di punti fermi: se l’allenatore diventa un amico o un fratello maggiore, è un guaio. I calciatori restano spiazzati e lo staff, alla prima difficoltà, raccoglie delusioni. Meglio evitare e trovare quel giusto mix tra bastone e carota che resta l’unico sistema per andare sul sicuro.
Due sono gli aspetti che vorrei analizzare per chiudere l’argomento. Il primo riguarda la specificità dei ruoli dei giocatori in campo e le diverse sensibilità che manifestano i portieri rispetto ai difensori o i centrocampisti rispetto agli attaccanti. A seconda della posizione coperta sul terreno di gioco, l’allenatore e il vice debbono trovare un linguaggio e un rapporto personalizzati per essere credibili e convincenti. L’altro aspetto è relativo alle nazionalità dei calciatori allenati. In ogni spogliatoio ci sono più culture, calcistiche e non, più stili di vita, più interpretazioni del calcio stesso e per me è stato un incredibile arricchimento avere a che fare con ragazzi di tutti e cinque i continenti, grazie ai quali ho conosciuto e scoperto cose che non avrei mai potuto conoscere. Potrei ricordare decine di aneddoti (il coreano Ahn che mangiava l’aglio prima della partita, gli iraniani Rezaei e Ali Samereh che pregavano nello spogliatoio, il cinese Ma che aveva tutta una serie di riti particolari), tutti emblematici e significativi. Devo dire, su questo tema, che è stato più agevole gestire una squadra con tanti stranieri di paesi diversi piuttosto che una squadra con tanti giocatori della stessa provenienza estera. Se ci sono uno o al massimo due elementi della stessa nazionalità, le dinamiche di spogliatoio li obbligano a integrarsi e ad adeguarsi al gruppo. Nel secondo caso, al contrario, i ragazzi tendono a creare mini gruppi isolati e chiusi che rischiano di inficiare sia i loro rapporti con gli altri compagni che i rapporti degli allenatori con la squadra. Lo staff allora deve moltiplicare attenzioni e impegno per salvaguardare l’equilibrio dello spogliatoio.
Credo che l’importanza del vice allenatore sia spesso trattata con superficialità. Per molti esiste solo la figura anonima del collaboratore tecnico o dell’aiutante di campo, mentre invece l’allenatore in seconda ha compiti specifici, preparazione culturale e didattica, oltre a un’influenza determinante nella gestione dello spogliatoio e della metodologia d’allenamento. In altre parole, è un allenatore a tutti gli effetti.
Soprattutto nel calcio di oggi, in cui il risultato è l’unica cosa che conta veramente e che forma i giudizi sul lavoro svolto dallo staff tecnico, l’allenatore in prima ha la necessità di non ritrovarsi da solo nei rapporti con la squadra, con la società, con i media, con i tifosi. Ha bisogno di una sorta di corazza, rappresentata dai suoi collaboratori, vice allenatore in primis, in grado di proteggerlo e schermarlo dall’esterno. Una corazza solida, efficiente e resistente è una condizione indispensabile per raccogliere i risultati e salvaguardare la propria attività, oltre che la propria carriera. Anche il rapporto che si instaura tra tutte le componenti di una squadra di calcio, dallo staff tecnico fino al magazziniere, è fonte di molte riflessioni utili a spiegare il conseguimento o meno degli obiettivi prefissati. E dobbiamo ammettere che le sinergie di lavoro influiscono moltissimo sull’andamento della stagione.
Il concetto di team è valido anche per l’allenatore e i suoi collaboratori, che devono essere i primi a valorizzare e a puntare su questa concezione della loro attività. L’ottenimento dei risultati in uno sport di squadra, infatti, non può prescindere dall’ottimizzazione delle dinamiche di gruppo. In base a questa premessa e alla mia esperienza personale, ho elaborato una tesi che mi auguro possa servire come spunto di riflessione per chi lavora dentro o a contatto con il mondo del calcio.
Conoscenza tra l'allenatore in prima e l'allenatore in seconda.
Per conoscere a fondo una persona bisogna avere l’opportunità di frequentarla in maniera assidua per un periodo di tempo piuttosto lungo. Meglio ancora se la frequentazione è obbligata, forzata, perché in tale contesto viene fuori l’identità vera e si possono esplorare le inclinazioni del suo carattere, analizzarne pregi e difetti, modi di pensare, di rapportarsi con gli altri, di approcciare la vita e l’attitudine a socializzare.
Serse Cosmi l’ho conosciuto al corso per allenatori professionisti di seconda categoria, a Coverciano, nel 1997. Abbiamo trascorso sei settimane gomito a gomito, dal lunedì al venerdì, di giorno e di notte, visto che dormivamo nella stessa camera. A pelle, la sensazione è stata che ci conoscessimo da sempre, per una simpatia che è scattata subito da entrambe le parti. Credo che a renderci complici fin dal primo momento siano state delle analogie che riguardano la mia e la sua vita: una visione delle cose piuttosto simile, per esempio, e anche certe esperienze parallele relative all’adolescenza. Entrambi siamo cresciuti in paesi di provincia, entrambi abbiamo dedicato al pallone gran parte della nostra vita, tutti e due abbiamo valori semplici ma genuini che conserviamo gelosamente. Inoltre, dato importante, siamo pressoché coetanei. Fatto sta che mi è apparso da subito come una persona, un collega, un amico col quale poter condividere un percorso comune, sportivo e non.
Per quanto mi riguarda si è creato un rapporto di amicizia sincera, consolidatosi negli anni, e una collaborazione professionale molto stimolante, affinata partita dopo partita, allenamento dopo allenamento. E’ anche vero, e io non faccio eccezione, che ognuno di noi coltiva l’ambizione di misurarsi personalmente con il lavoro che fa, di essere in qualche modo il protagonista principale della sua vita e della sua carriera. Però, proprio per il legame affettivo instauratosi tra di noi, ho vissuto con appagamento e soddisfazione il mio ruolo di tecnico in seconda, senza rimpianti. Mai dire mai nella vita, anche se è evidente che la condivisione di certe esperienze, di certe amicizie, di certi principi, ti spinge in una direzione piuttosto che in un’altra.
Determinante, in questo senso, è stato ed è quel senso di arricchimento che si prova nel lavorare in staff con persone con le quali c’è feeling e con professionisti di valore. In una situazione del genere c’è l’opportunità di un dialogo chiaro con l’allenatore, la tranquillità di esporre le proprie idee senza il rischio di non essere ascoltato, la possibilità di creare un pensiero comune da rivolgere allo spogliatoio. Tutto ciò è ancora più importante nel calcio di oggi, dove l’allenatore è sempre più solo e dove la figura della guida tecnica ha perso molto del suo potere. Ormai il confronto schietto, aperto con le dirigenze e i calciatori è una rarità, perché ciò che conta è il risultato immediato. E se il risultato non arriva, l’esonero è automatico.
Spesso succede che un allenatore sia costretto a scegliersi un vice indicato dalla società o "sponsorizzato" da tutor esterni, scoprendone caratteristiche positive e negative soltanto sul campo, durante il lavoro quotidiano. Questo, proprio in riferimento alla ristrettezza del tempo a disposizione per impostare un certo tipo di programma, è penalizzante e per nulla produttivo. Sotto tale profilo , voltandomi indietro e ripensando alle dodici stagioni con Cosmi, mi considero uno fortunato.
Filosofia calcistica.
Un proficuo rapporto professionale con l’allenatore in prima presuppone, oltre alla condivisione di certi stili di vita, anche la filosofia di fondo con cui viene interpretato, gestito e proposto il calcio. Schemi di gioco, moduli tattici e metodologia d’allenamento devono essere frutto del lavoro di ricerca e di studio dello staff tecnico, perché una divergenza più o meno marcata sul tipo di programma da proporre alla squadra, potrebbe ingenerare equivoci profondi nei rapporti con i calciatori.
E’ anche vero che spesso mi sono posto il problema se sia più proficuo, nel rapporto con l’allenatore in prima, trovarsi sempre sulla stessa lunghezza d’onda oppure confrontare idee diverse, partire da presupposti differenti e poi mediare una sintesi efficace. In entrambi i casi, secondo la mia esperienza, ci sono risvolti positivi e negativi.
Nell’eventualità di un pensiero comune, c’è di buono che il programma settimanale viene elaborato uniformemente, con il rischio però di essere monotematici e di trascurare alcuni dettagli che poi potrebbero inficiare l’approccio alla partita e la prestazione sul campo. Viceversa, se si crea una divergenza tra tecnico in prima e tecnico in seconda, diventa fondamentale il confronto e la necessità di buonsenso da ambo le parti per raggiungere un punto d’incontro e attutire i contrasti. In questo caso l’aspetto positivo è rappresentato dal fatto che dubbi e diversità d’opinione stimolano la concentrazione e la messa a fuoco di tanti particolari, come ad esempio le contromisure tattiche per neutralizzare l’avversario.
La verità, a mio parere, sta nel mezzo. E l’allenatore in seconda ha il compito delicatissimo di saper leggere i vari contesti specifici. Occorrono serenità e sensibilità per capire quando è il caso di non sollevare troppi dubbi con l’allenatore in prima e quando invece si rende necessario porre in tavola osservazioni e perplessità, stimolando una lettura diversa della gestione tecnica e tattica contingente.
E’ chiaro che una filosofia di base condivisa, in riferimento alla visione generale del calcio, costituisce un naturale punto di partenza, perché facilita l’interazione con la squadra e riduce il rischio di alimentare contraddizioni. A Cosmi, per esempio, mi accomuna l’elasticità tattica che ci consente di variare la disposizione dei giocatori sul terreno di gioco. Non abbiamo un modulo "preferito", nonostante l’utilizzo frequente del 3-5-2, ma cerchiamo di adattare lo schema alle caratteristiche degli interpreti. Più in generale, abbiamo sempre suggerito un approccio propositivo alla prestazione, incoraggiando i calciatori a fare la partita e non a subirla passivamente. La valorizzazione dei giovani, anche sconosciuti e provenienti dalle categorie inferiori, è stato ed è un altro dato che caratterizza il nostro lavoro, visto che a tutti e due piace impostare un progetto a medio termine su elementi da scoprire tecnicamente e caratterialmente.
E’ molto più frequente, per tornare al tema di fondo, trovarsi in disaccordo sulla gestione psicologica del gruppo o di un calciatore, piuttosto che su quello tecnico e tattico. Questo avviene perché le sfumature nei rapporti personali sono infinite, così come le difficoltà che insorgono durante una stagione. Individuare la parola giusta da pronunciare in un colloquio individuale, oppure il provvedimento disciplinare da prendere in seguito a un comportamento sbagliato, oppure ancora l’atteggiamento da tenere nei confronti di un giocatore alle prese con difficoltà relative alla sfera privata, richiede una conoscenza approfondita della vita di spogliatoio e una comunanza di idee con l’allenatore in prima. Soltanto così lo staff trasmetterà un messaggio di solidità rassicurante.
Poi è anche vero che in giro ci sono allenatori che trascurano completamente il parere dei collaboratori, e collaboratori che preferiscono declinare le responsabilità, restando nel limbo di un atteggiamento per nulla partecipe. Entrambi i comportamenti sono sbagliati. Il primo perché nega quell’interazione tra membri dello staff che è fondamentale per una corretta gestione della squadra, il secondo perché riduce la figura del vice allenatore a un mero aiutante di campo, senza potere decisionale e senza la facoltà di rendersi utile nella risoluzione dei problemi tecnici, tattici e psicologici che si creano lungo l’arco di un campionato.
In generale sarebbe proficuo, a mio giudizio, confrontare le esperienze degli allenatori in seconda che stanno lavorando nel calcio italiano e all’estero. Noto però che permane un certo ostracismo in questo senso e gli addetti ai lavori lasciano filtrare poco o nulla, pregiudicando una conoscenza più vasta delle caratteristiche del nostro lavoro.
Conoscenza dei compiti specifici.
Molto spesso, in tutte le categorie e in tutte le società, assistiamo a cambiamenti improvvisi nella composizione dello staff tecnico. Questo accade sia per scelta dell’allenatore in prima che per decisione delle dirigenze. Alla base, quasi sempre, c’è il venir meno di quei sottili equilibri che sono indispensabili per dare produttività al lavoro. Il mestiere dell’allenatore in seconda, sotto questo aspetto, è delicato e difficile da interpretare nel modo giusto. I superficiali sostengono che abbia pochi lati negativi e tanti vantaggi, su tutti quello di osservare le cose dal di dentro, dall’interno dello spogliatoio, che resta il cuore pulsante della squadra. Pochi riescono a focalizzare, però, che per gestire una responsabilità del genere occorre una dote particolare: la diplomazia. Senza la capacità di dire o non dire la cosa giusta al momento giusto, e anche all’interlocutore giusto, si rischia di mandare all’aria il lavoro di mesi e mettere a repentaglio la propria credibilità, oltre a quella dell’allenatore in prima. E considerando quanto oggi sia difficile guadagnarsi l’autorevolezza necessaria per guidare una squadra di calcio, è facilmente intuibile l’importanza di avere sempre sotto controllo le cose da fare e le parole da spendere. E’ questo il concetto principale che caratterizza il compito dell’allenatore in seconda, anche più della conoscenza tecnica e tattica. L’effetto prodotto dalle proprie azioni e dai propri comportamenti va tenuto costantemente sotto controllo. Basta un piccolo gesto fuori posto per creare reazioni negative nel gruppo e quindi l’arrivo con l’auto nel parcheggio, il modo di interloquire con gli altri membri dello staff, il caffè preso al bar in compagnia della squadra, durante il ritiro, rappresentano soltanto in apparenza dei momenti in cui si possono abbattere certe barriere comunicative. Soprattutto con i giocatori, va salvaguardata la stabilità del rapporto tra loro e l’allenatore in seconda e tra quest’ultimo e l’allenatore in prima.
Mi è capitato diverse volte, per esempio, di trovarmi ad affrontare richieste di colloquio individuale da parte di un calciatore scontento per alcune decisioni tecniche o alle prese con qualche problema personale. In queste circostanze è assolutamente necessario dimostrare coerenza e preservare la solidità con gli altri componenti dello staff. I giocatori, in alcuni casi involontariamente e in altri consapevolmente, mettono alla prova le competenze e la "fedeltà" dell’allenatore in seconda. Chi cade nel tranello psicologico, magari perché inconsciamente ritiene di essere più bravo del tecnico in prima, e si lascia andare a considerazioni in libertà, tradisce il suo compito specifico e rende vulnerabile tutto lo staff, innescando un meccanismo perverso molto difficile da bloccare. D’altra parte, un buon allenatore in seconda deve affinare la capacità di calarsi nei panni del calciatore che ha di fronte e comprenderne le ragioni. Accade di frequente che i giocatori tendano a scrollarsi di dosso le responsabilità per scaricarle su qualcun altro e allora sarà necessario persuaderli su una lettura diversa della situazione e stimolarli a migliorare l’applicazione negli allenamenti e nelle partite.
E’ poi vero, come abbiamo appreso durante le lezioni del corso, che congruenza, accettazione attenta e incondizionata, comprensione empatica (Rogers, 1983) contribuiscono a creare quel clima di atteggiamenti facilitanti che genera crescita e risultati. Genuinità e trasparenza di comportamenti sono fondamentali, sia nelle scelte tecniche che nella gestione umana. Altrettanto importante è la considerazione positiva del calciatore, a prescindere dalla sua nazione di provenienze o dalle sua abitudini religiose e culturali. In questo devo dire che mi sono costruito in carriera una grandissima esperienza. Poi c’è la sensibilità verso la sfera interiore dei calciatori, la capacità di mettersi nei panni dei ragazzi, un obiettivo da conquistarsi giorno dopo giorno senza oltrepassare il limite della confidenzialità e conservando l’autorità che impone il ruolo dell’allenatore. Un vice deve dosare nel modo giusto rimproveri e gratificazioni, tenendo presente che l’obiettivo da preservare sempre, in ogni circostanza, è la credibilità del tecnico in prima.
Linguaggio usato tra i tecnici.
Il linguaggio ci consente di capire molte cose riguardo le relazioni interpersonali che ci sono dentro uno spogliatoio. Mi riferisco al linguaggio verbale, ovviamente, ma anche a quello corporeo.
La prima considerazione, banale soltanto in apparenza, è che il linguaggio utilizzato dall’allenatore in prima nei confronti del suo vice, offre a chi osserva una descrizione importante del rapporto esistente. Un atteggiamento brusco e troppo diretto dell’allenatore, delegittima il suo secondo. Al contrario, un vice allenatore esuberante all’eccesso può ingenerare nella squadra il dubbio che l’allenatore in prima non abbia la personalità e le conoscenze per gestire al meglio la situazione o che soffra la vivacità del collaboratore. Come al solito, la qualità che occorre è l’equilibrio, anche perché nel calcio moderno si fa presto a vedersi appiccicare un’etichetta, mentre ci vuole molto tempo per levarsela di dosso. Essere bollato come un allenatore dispotico che non dà spazio al suo staff, oppure come un allenatore troppo morbido, che al suo staff delega troppe funzioni, rappresenta un danno non da poco in termini di immagine. Messa così, la nostra potrebbe sembrare una professione difficile e insidiosa, cosa che in parte è vera. Ma alla base c’è una passione immensa per il lavoro sul campo e dentro lo spogliatoio, al punto che le difficoltà sono compensate dai momenti di gioia, pochi o tanti che siano. L’esperienza, come in molti altri settori, è di grande aiuto. Se un allenatore in prima ha svolto anche le mansioni di vice allenatore, il suo linguaggio con i collaboratori, con i giocatori e con la dirigenza sarà tale da facilitare il lavoro dello staff. Dirò di più: all’estero si sta consolidando la tendenza di allenatori in seconda che, introdotti a certi livelli dai loro maestri, si ritagliano una carriera di prestigio, prendendosi sulle spalle la responsabilità della guida di una squadra dopo qualche anno di apprendistato. Villas Boas del Porto, ex vice di Josè Mourinho, ne è un esempio lampante, mentre in Italia casi del genere sono molto più sporadici. Anche dalla televisione traspare nitidamente questo legame sempre più stretto che c’è tra tecnici. Capita di frequente, durante le partite internazionali e non, di vedere gli allenatori parlottare e scambiarsi opinioni con i membri del loro team seduti in panchina. Quella è una forma di comunicazione rassicurante anche nei confronti della squadra che sta giocando la partita.
Tornando al linguaggio usato dai tecnici, trovo assolutamente necessario utilizzare il noi al posto dell’io. Se l’allenatore in prima si rivolge al gruppo facendo capire che il suo è un lavoro di staff, tutti ne traggono beneficio. Altrimenti, inconsciamente, i calciatori potrebbero essere indotti a trascurare le indicazioni del vice, del preparatore, del tattico, perché tanto pensa a tutto l’allenatore in prima, mentre il lavoro di quest’ultimo si va sempre più a delineare come il vertice di una piramide operativa. L’allenatore ideale, a mio avviso, è di sicuro quello che potuto ricoprire anche il ruolo di vice, maturando esperienze preziose che gli hanno poi consentito di fare il salto di qualità. In questi anni di lavoro a fianco di Cosmi, ho imparato a capire anche l’incidenza del linguaggio corporeo, visto che lui è un allenatore che affida alla gestualità molta della sua forza comunicativa. L’agitarsi davanti alla panchina, il richiamare a voce alta i calciatori, il gesticolare in maniera appariscente sono input che vengono inviati alla squadra. Quando si siede in panchina, quello è il sintomo che la prestazione non è soddisfacente. E’ superfluo poi mettere in evidenza quanto conti il tono della voce utilizzato per incitare, elogiare, pungolare la squadra. Nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per esempio, un allenatore che utilizza un linguaggio efficace ha la possibilità di cambiare l’andamento della gara. In questi casi è preziosissimo anche il contributo del vice. In certi momenti basta un’espressione della faccia, una smorfia, un’occhiata per mettere in crisi lo sforzo dell’allenatore in prima. Ecco perché anche il linguaggio corporeo, tramite piccoli e grandi segnali, è uno strumento imprescindibile nella gestione di una squadra di calcio.
Complicità psicologica nella gestione del gruppo.
Ho già messo in evidenza come il calcio sia molto cambiato rispetto a una volta, anche sotto l’aspetto dei rapporti e della comunicazione interna. La figura dell’allenatore ha subito un’involuzione, almeno per quello che riguarda la sua esposizione ai problemi e alle difficoltà. Chi guida una squadra, infatti, non ha più la protezione che aveva un tempo, quella autorità che gli derivava semplicemente dal ruolo che ricopriva. Oggi l’allenatore, sempre più spesso, sembra un fantoccio nelle mani del presidente di turno. E allora diventa imprescindibile la complicità umana, professionale e psicologica con il suo staff al completo. Proporsi al gruppo con le spalle coperte è uno dei fattori più importanti per sviluppare un lavoro proficuo, anche in considerazione del fatto che i giocatori sono portati a giudicare sommariamente tutto ciò che propone un team di allenatori e preparatori.
In base alla mia esperienza, non posso dire che i calciatori non siano uniti o non collaborino con i tecnici. Ma questo riguarda per lo più la coesione sociale che quella del compito: i calciatori sono più attenti al risultato individuale, alla propria crescita, al proprio successo, più che all’instaurare un vero spirito di gruppo. Per come si è evoluto il calcio moderno, l’allenatore si trova davanti venti aziende individuali, i calciatori per l’appunto, riunite in una sorta di consorzio che si chiama squadra di calcio. Non è affatto semplice indirizzare ognuna di queste aziende lungo una linea comune e quando la situazione tocca livelli da allarme rosso, lo si capisce da certe frasi, da certi luoghi comuni, buttati in pasto ai media da giocatori, allenatori e presidenti. Quando si comincia a dire che "bisogna restare uniti, remare dalla stessa parte" eccetera eccetera, quello è il segnale che la situazione sta peggiorando e che per l’allenatore cominciano tempi grami. Prima di arrivare a certi punti critici, i tecnici devono lavorare insieme dal punto di vista psicologico e nella gestione delle dinamiche interne. L’aiuto del vice allenatore libera energie mentali che l’allenatore in prima può dedicare ad altri aspetti della preparazione della partita. Un approccio sbagliato alla gara è quasi sempre il sintomo di una gestione settimanale imperfetta, in cui il tecnico e i suoi collaboratori hanno dovuto occuparsi di problemi particolari e contingenti piuttosto che del programma classico di lavoro.
Trovo necessario ribadire che i rinforzi psicologici passano soprattutto dall’allenatore in seconda. Se un giocatore chiede spiegazioni sul motivo per il quale non viene considerato alla stregua degli altri compagni, sul perché gioca poco, sulle cause di un suo scarso utilizzo, un buon vice non può mostrarsi titubante e incerto. La figura dell’allenatore in prima e le sue decisioni vanno rinforzate, facendo leva sulla capacità di leggere le situazioni. E’ un gioco delle parti che si autoalimenta e che va gestito con intelligenza: anche quando non si è d’accordo al cento per cento con una scelta tecnica, il vice deve recitare uno spartito e dimostrarsi credibile, altrimenti si verrebbe a creare una spaccatura dagli esiti imprevedibili. L’allenatore in seconda, per l’esperienza che ho maturato io, deve essere un istrione e interpretare il suo ruolo in mille modi, mantenendo un pensiero coerente con l’allenatore in prima, con se stesso e con il gruppo, anche quando, in realtà, ha qualche dubbio sulla bontà delle scelte effettuate.
Il concetto di complicità è proprio questo e soprattutto la complicità esiste soltanto se gli altri la avvertono e la riconoscono. A volte, non sempre, si rende necessario anche un confronto a tre o di gruppo, per dimostrare pure di fronte ad altri che non si cambia versione e che esiste veramente una linea da seguire per lo staff. Tale interazione, dunque, il calciatore può toccarla con mano e questo consente di risolvere un problema, perché il giocatore tende a crearsi degli alibi e ha costantemente bisogno di essere rassicurato.
Ovviamente, gli stessi concetti si applicano anche nei confronti dei dirigenti, con i quali è fondamentale mostrare complicità e condivisione degli obiettivi. Il contatto giornaliero con il direttore sportivo, il direttore generale e anche il presidente, presuppone che lo staff si mostri monolitico e solido, in modo da rinforzare la figura dell’allenatore in prima e di conseguenza di facilitare il lavoro di tutti i suoi collaboratori.
Rapporti con la squadra.
Non è facile instaurare un rapporto positivo con professionisti di alto livello, bombardati da mille messaggi e mille stimoli, quali sono i calciatori di oggi. Buona comunicazione e risultati sportivi sono strettamente connessi tra di loro e chiedersi cosa sia più importante porta a una sola risposta: sono importanti entrambi. Senza risultati sul campo, la comunicazione è destinata a complicarsi se non addirittura a fallire. Senza una buona comunicazione, d’altronde, alzare il livello delle prestazioni e migliorare le performances diventa quasi impossibile.
Va detto che mentre un allenatore deve obbligatoriamente tenere sotto controllo gli interessi globali della squadra, i calciatori sono concentrati su quelli individuali. Di qui la necessità di incanalare la comunicazione su binari precisi, in modo da non perdere di vista l’obiettivo finale. Per instaurare un rapporto corretto con il gruppo, un allenatore deve avere la collaborazione totale del suo staff. I dettagli e le sfumature che si presentano durante una stagione sono infinite e una sola persona non può gestirle tutte. L’individuazione stessa di un problema richiede tempo e attenzione, così come la sua soluzione dopo averlo affrontato con la giusta strategia comunicativa e con tempi piuttosto celeri. E’ chiaro, comunque, che le possibilità di una giusta correlazione con la squadra dipendono anche dalla sensibilità culturale dei giocatori.
Negli anni mi sono trovato ad affrontare più di una situazione critica e devo ammettere che nella maggior parte dei casi siamo riusciti a ottenere riscontri apprezzabili. Questo è dipeso in gran parte dall’ottimo rapporto e dalla complicità che si era instaurata dentro il nostro staff e che non smetterò mai di sottolineare.
Le ultime esperienze professionali con Brescia, Livorno e Palermo mi hanno anche fatto comprendere quanto sia delicata la fase del subentro a stagione in corso. Ci sono dei casi, come quello di Palermo, in cui non si crea il feedback con il gruppo e i messaggi dell’allenatore, del vice, del preparatore, non giungono a destinazione. Quando uno staff non riesce a penetrare nel tessuto emotivo dello spogliatoio, è praticamente impossibile ottenere risultati. Molto influisce il contesto: a Palermo, per esempio, la squadra era molto legata all’allenatore precedente e da parte della società non c’è stata la giusta legittimazione del nuovo team di lavoro. Diversi sono invece i casi di Brescia e di Livorno, dove siamo arrivati a lavorare in profondità anche sotto l’aspetto della comunicazione, oltre che tecnico e tattico.
In generale, mi sento di affermare che rispetto ai primi anni in cui sono arrivato alla serie A, i calciatori sono cambiati molto, anche perché è mutato il contorno. Oggi il mister non è più l’unica fonte di conoscenza calcistica alla quale fanno riferimento e addirittura si è verificato un rovesciamento completo di certe dinamiche: se prima era l’allenatore, in base al suo modo di intendere il calcio, che confermava o meno i giocatori, adesso accade l’esatto contrario. Non so se si giungerà al punto di rendere l’allenatore una figura da comprimario, ma sarebbe sicuramente sbagliato perché di cose da fare, per un rapporto positivo con il gruppo, ce ne sono tante: determinare i comportamenti da tenere con i singoli e con la squadra; studiare analiticamente le varie personalità; individuare il leader o i leader; leggere i rapporti tra i calciatori e la dirigenza; conoscere le famiglie dei calciatori.
Con Cosmi, per mia fortuna, abbiamo sempre suddiviso serenamente certe sfere di competenza e mi sono ritagliato un ruolo che ritengo importante dal punto di vista psicologico, proprio per il dialogo e la partecipazione che ho cercato di mettere in piedi e di mantenere con i calciatori. La cosa si è rivelata più semplice quando abbiamo avuto l’opportunità di cominciare la stagione dall’inizio, cioè dal ritiro estivo, mentre è stata più complicata nei casi di subentro citati prima. A tal proposito, abbiamo riflettuto più volte sulla necessità di modificare il nostro approccio classico alla comunicazione: cercare un’interazione con i giocatori e un rapporto più confidenziale di quello standard, come è naturale per noi, pagava nei primi anni ma adesso non paga più. I giocatori hanno bisogno di una guida e di punti fermi: se l’allenatore diventa un amico o un fratello maggiore, è un guaio. I calciatori restano spiazzati e lo staff, alla prima difficoltà, raccoglie delusioni. Meglio evitare e trovare quel giusto mix tra bastone e carota che resta l’unico sistema per andare sul sicuro.
Due sono gli aspetti che vorrei analizzare per chiudere l’argomento. Il primo riguarda la specificità dei ruoli dei giocatori in campo e le diverse sensibilità che manifestano i portieri rispetto ai difensori o i centrocampisti rispetto agli attaccanti. A seconda della posizione coperta sul terreno di gioco, l’allenatore e il vice debbono trovare un linguaggio e un rapporto personalizzati per essere credibili e convincenti. L’altro aspetto è relativo alle nazionalità dei calciatori allenati. In ogni spogliatoio ci sono più culture, calcistiche e non, più stili di vita, più interpretazioni del calcio stesso e per me è stato un incredibile arricchimento avere a che fare con ragazzi di tutti e cinque i continenti, grazie ai quali ho conosciuto e scoperto cose che non avrei mai potuto conoscere. Potrei ricordare decine di aneddoti (il coreano Ahn che mangiava l’aglio prima della partita, gli iraniani Rezaei e Ali Samereh che pregavano nello spogliatoio, il cinese Ma che aveva tutta una serie di riti particolari), tutti emblematici e significativi. Devo dire, su questo tema, che è stato più agevole gestire una squadra con tanti stranieri di paesi diversi piuttosto che una squadra con tanti giocatori della stessa provenienza estera. Se ci sono uno o al massimo due elementi della stessa nazionalità, le dinamiche di spogliatoio li obbligano a integrarsi e ad adeguarsi al gruppo. Nel secondo caso, al contrario, i ragazzi tendono a creare mini gruppi isolati e chiusi che rischiano di inficiare sia i loro rapporti con gli altri compagni che i rapporti degli allenatori con la squadra. Lo staff allora deve moltiplicare attenzioni e impegno per salvaguardare l’equilibrio dello spogliatoio.